domenica 15 gennaio 2012

NON SO DARGLI UN TITOLO

Un racconto scritto quest'estate, se avete tempo e voglia leggetelo ed ogni commento sarà ben accetto.
Ciao a tutti
Fede
NON SO DARGLI UN TITOLO


HO LICENZIATO DIO.


Dalla radio esce De Andrè, il “mostro sacro”, come dice lei. E parla pure lui d’amore. Non è scontato quando lo fa ma lo fa. Che poi che vuol dire “amore”? L’amore è una parola con cui la gente per bene si riempie la bocca. Incravattati, sorridenti, coi denti bianchi, la moglie, la figlia, il poppante. Ridono, sorridono; tutti finti e incipriati. Non me la bevo, cari. Vedo attraverso di voi e siete di plastica. Avete amanti, dubbi, insoddisfazioni, frustrazioni. Almeno scopate? Non ne sono certo. O forse ficcate le vostre mogli pensando al film – porno – visto in ufficio la mattina stessa.
Mi accendo un’altra sigaretta, l’ultima l’ho spenta 3 minuti fa. Marlboro Gold. Quattro euro e novanta. Minchia quanto costano stè sigarette! Ma me lo posso permettere e quindi sti cazzi. Alla fine guadagno bene. La mia vita da scheggia impazzita per l’Italia mi permette di vivere bene e di farmi ammazzare dalle sigarette. Certo col tempo, con calma. C’è ancora un sacco di tempo. Che poi a me del tempo non me ne frega una strabeata minchia.
Domani poi vado a Firenze. A Firenze, lì, il tempo sembra fermo. Come mi rilasso lì. Poi l’albergo che prendo proprio davanti alla sede del fornitore dà proprio su Santacroce. Mi alzo al mattino, scendo, mi prendo un caffè, una ciambella e mi fumo una siga. Il fornitore è un cazzone. Basta che gli spiego come funzionano le cose e gli dico che mi può chiamare se ha dubbi. Che le chiamate non gliele metto a consuntivo. Ride. Mi piace questo. Si chiama Tiberio, è un simpatico panzone. Alla fine mi prende in simpatia. Mi dice: “Lorè! Oh bischero! Che come funziona sto software!”. Accento fiorentino, fa ridere solo sentirlo. Dico a Tiberio che deve pensare al Pc come se fosse un uomo. Mi piace Tiberio, gli spiego volentieri. Abbiamo creato un uomo che parla e che risponde alle tue domande. Certo non ha il sentimento e poi non capisce se vai fuori tema ma chissene frega. Quanti uomini capiscono davvero in fondo? Il software deve far girare la contabilità della catena di negozi, L’Arena, non è che debba parlare di massimi sistemi.
Che poi che palle ‘sti massimi sistemi. Ai giorni nostri tutti a filosofeggiare; si sentono tutti intellettuali ormai. Tutti pensatori. E poi che te lo dico a fare: la gente con Facebook si è sbizzarrita! Spara lì le frasi poetiche, le citazioni, le parolone. E allora siamo tutti poeti e filosofi? O siamo solo tutti stronzi, incapaci di fare il lavoro manuale, incapaci di fare una cazzo. Incapaci di attaccare un quadro.
Mi fa male ancora il dito per la martellata che mi sono dato l’altro giorno. Ma non perché io sia un filosofo. Io non sono né un filosofo né un attaccatore di quadri.
Sono Lorenzo, di anni 34, laurea in Economia 110/110 e lode, specialista di prodotti sw, amante di cinema, libri e un po’ di teatro. Ma poco. Solo quando mi ci accompagna qualcuna ma non mi accompagna mai nessuna perché in genere le cose le faccio da solo. A parte qualche caso, a parte qualche amico. Viaggio solo. Vivo la vita da solo. Non sono presuntuoso, non guardo dall’alto in basso la gente ma mi sento diverso. Sto lì, di lato, mentre loro recitano il loro copione di vita e mi fumo una siga. Mi capita spesso di mangiare da solo, ai bar o sotto l’ufficio (quelle poche volte che ci sto). Mi fisso a guardare la gente. Non penso a niente.
Ma è possibile poi non pensare a niente? O forse penso alla gente, la vedo, la guardo, la osservo mentre mastico la pizzetta rossa.
Mi capita di vedere dei bei culi in giro. Guardo prima il culo delle donne. Deformazione. Non posso fare altrimenti. Quanto mi piacciono i culi morbidi. Non è superficialità. E’ che una bella donna deve avere un bel culo, altrimenti quasi non mi sembra completa. Insomma alla fine mi piace partire dal culo e poi magari scoprire anche un bel viso. Brutto è quando parti da un bel culo e arrivi ad una faccia da racchia. In quel caso non mi basta il culo; quindi no, non sono superficiale. Mi piace partire da un bel culo e arrivare ad una bella faccia. Meglio se trovo degli occhi vispi ed intelligenti. Non sono neppure maschilista ma mi capita di incontrare più uomini interessanti che donne interessanti.
E non sono neppure frocio.
Le donne però non sono tutte meritevoli. In giro ci sono tante sciacquette che la danno per fare carriera. Insomma esistono e non mi vergogno di dirlo. Non puoi non dire una cosa solo perché è offensiva. Bisogna dirle le cose se sono vere. Come quelli che dicono che i negri sono come i bianchi. Non è vero il colore bianco è diverso dal nero, non si può avere paura di dirlo. E poi c’hanno dei gran cazzoni non paragonabili ai nostri, mortacci loro! Qualcuno deve pure dirle le cose. Pure se sono sgradevoli o la gente non le vuole ascoltare. E io sono quel qualcuno.
Ci sta una tipa in ufficio che la fa annusare a tutti. Anche a me alla fine. Bella gnocca, vogliosa. Ma si è scopata i grandi capi e ora eccotela lì che l’hanno fatta dirigente. Ecco che ho detto la cosa sgradevole, qualcuno doveva pur farlo. E poi mi dispiace per le altre donne, quelle che invece la partita se la giocano in prima linea e tutta da sole. Quelle sono le donne che stimo, sono quelle che mi ricordano mia madre. Ce ne sono tante pure di quelle. Insomma non è che sia poi tutto nero, anzi. Ce ne sono certe in gamba (magari pure con un gran bel culo che male non fa).
Non è che io non sia mai stato innamorato.
Anche se mi indispone questa parola. Io semmai sono stato bene con qualcuna.
Non sto bene con tutte. Anche perché in generale sto bene solo con me stesso. Anche con mamma sto bene. Poi mamma è vedova, vive sola e mi piace che mangiamo insieme qualche volta.
Poi mi chiede: “ma una fidanzata non te la fai ancora?”.
“No, mamma non me la faccio io una fidanzata”, come se non lo sapessi che figlio hai fatto.
Come quella volta che Mariana, la signora rumena che fa le pulizie da lei e che qualche volta le fa pure da me, le aveva detto di aver trovato una strisciata di smalto rosso sul muro, vicino al letto.
La prova palese di unghie di piede femminile: prova tangibile di una gran scopata (da non leggere in senso dispregiativo, “una grande scopata” non si fa con tutte). E quel segno l’aveva fatto Marica. E lei è stata una presenza importante in fondo. E’ scappata alla fine pure lei. Non si può stare troppo vicino a me e lei aveva resistito abbastanza, direi.
Che stronzo sono. Il classico stronzo visto da fuori. Ho glissato l’argomento con mamma.
“Ancora che spero che mi racconti le cose”, mi dice.
Carina mamma, ancora che spera lei.
Meno male che Freddy forse una speranza di avere un nipote gliela dà. Solo che Freddy è più piccolo e ancora si ammazza di canne. Io almeno quella fase l’ho passata (più o meno…).
Quasi mi sfiora la tristezza quando penso a come scopavamo io e Marica.
Dico “quasi” perché poi in verità penso che non me ne frega niente e tiro dritto sulla mia strada che comunque è solo mia. Incondivisibile. Impossibile starmi dietro, mi dispiace se qualcuna pensa di poterlo fare. Un po’ a volte è anche colpa mia perché mi lancio, faccio credere di essere uno come un altro, che mi potranno sposare che viaggeremo insieme e che potranno vivere a casa mia. Ma è una finzione ed io non lo faccio apposta, è che mi perdo. E poi dipende dalla parte di me che prevale. Dipende se mi riesco a trovare perché non mi trovo sempre.
Anzi, spesso non mi trovo. E quando non mi trovo non posso far altro che staccarmi dal mondo.


UNA BUSSOLA


Papà guidava e io stavo dietro come tutti i bimbi. Freddy sul seggiolino di lato, e io guardavo fuori assorto. C’era la costa sarda. La costa sarda non è proprio una litoranea così come si immaginano le litoranee. E’ granitica, tutta intagliata tra le montagne. Il finestrino è socchiuso perché è l’alba e l’aria è fresca. Mi arriva quell’odore di Sardegna. Scoprirò in poco tempo che è mirto. Lo scopro grazie a papà perchè non smetteva mai di fare lo scemo e urlava dal finestrino:
“sentite, sentite l’odore del mirto!”.
Caricava molto la “r” vibrante, tutta italiana. Mamma lo guardava col sorriso sotto i baffi quando faceva lo scemo.
“Che padre eccentrico”, mi dicevo.
In Sardegna la famiglia di mamma aveva una villetta a Capo Coda Cavallo. Una casa con la piscina pure. Famiglia benestante la mia. Insomma, senza sfarzo o ricchezza da milionari ma con tutte le cose che ti fanno vivere bene: casa al mare, casa a Madonna di Campiglio, sci, poi snow. Insomma benestanti. Ma non sono stato mai un fighetto in fondo. Non me ne fregava niente della roba di marca. Che poi al Giulio Cesare invece tutti badavano a ste cose. La giacchetta firmata, le scarpe, tutte robe che a me non interessavano. Poi magari si crepavano di fame ma non ci rinunciavano ad avere la griffe.
Con la Sardegna comunque c’ho un legame quasi ancestrale. Chissà perché. Non me lo avevano trasmesso i miei in fondo, per loro era la casa al mare. Io però respiravo proprio questo legame forte, come se fossi nato lì. Mi sono fatto i calcoli una volta, perché io sono di maggio ed effettivamente forse la scopata i miei se la sono fatta lì (questa mia frase riconferma che il senso che do alla parola “scopata” è tutt’altro che dispregiativo, perché proprio da una sana e ricca scopata sono nato io.)
La Sardegna comunque mi pareva un posto fuori dall’Italia in fondo. Prendendo quel traghetto di otto o sette ore, arrivavi in una terra diversa. Insomma la litoranea era diversa, gli odori erano diversi, il mare era un’altra cosa (altra cosa per lo meno da Civitavecchia da dove partiva il traghetto). Quando avevo visto il mare di Cuba avevo capito che la Sardegna era all’altezza di competere anche con i Caraibi. Certo a parte l’acqua fredda. Motivo per cui papà non faceva che buttarsi con la muta. Il bagno solo con la muta, maschera, pinne e boccaio. Faceva immersioni e raramente pescava. A parte qualche ostrica per improvvisare aperitivi sulla spiaggia gli piaceva che i pesci se ne restassero lì dove stavano. Non che fosse un animalista, un vegetariano o robe così. Solo che gli piaceva fare immersioni, vedeva da vicino il mondo marino, era tutto così armonico che alla fine non gli pareva proprio il caso di starlo lì a massacrare.
Insomma non voleva essere l’Adolf Hitler dei mari.
E poi ci raccontava delle storie a me e a Freddy su questi pesci. Sul fatto che la mattina uscivano ed andavano in ufficio, che c’era il Pesce Salva e il Pesce Tore, che erano amici. La pescia Botta e la pescia Tana che facevano le prostitute. E la Pescia Rosa col Pesce Tonio che avevano i figli Tonietto e Tonino (che poi eravamo noi). E poi diceva che quando tornavano nella tana potevano essere infastiditi da una medusa viscida. Mi hanno sempre fatto schifo le meduse. Ma schifo-schifo. Che poi le meduse fanno schifo: tutte lunghe, molli e viscide. E poi me le immaginavo che ci importunavano quando tornavamo a casa la sera. Ste stronze.
Mamma diceva che papà ci avrebbe fatto venire le turbe con quelle storie. Ed effettivamente un po’ era vero. Freddy aveva paura delle meduse e di un sacco di altre robe così. Aveva paura della strega di Biancaneve, di Mangiafuoco e pure di Maga Magò. E la sera quando ci addormentavamo in Sardegna lui voleva tenere la luce accesa perché aveva paura dei mostri. E io lo prendevo riccamente per il culo.
Ma col tempo anche io ho cominciato ad avere paura, una paura fottuta. E non di Maga Magò o della strega. C’avevo paura quando il mio cervello si isolava, si staccava da me e si metteva lì a viaggiare. Si metteva lì, da un lato e a me pareva di restare senza un cervello, senza un’anima. Con la paura di aprire gli occhi e di non trovarmi. E allora mi mettevo lì nel letto e cercavo di riacchiapparlo. In posizione fetale, di lato, faccia al muro con l’idea che se mi fossi addormentato sarebbe ritornato da me e che d’un tratto, d’un baleno, mi sarei ritrovato. Ma questo quando stavo con papà in Sardegna non accadeva. Le visioni, gli sballamenti ce li ho avuto solo dopo. Dopo che lui ha deciso di andarsene. Prima no. Prima ero un bambino normale. E non me l’aveva detto lo psicologo o lo psichiatra o un cervellone strizza cervelli. C’ero arrivato da solo. Non ne avevo bisogno io. Io mi sono sempre capito. Sono gli altri che non sempre lo hanno fatto ma non ci posso fare granché. E per questo mi piace stare da solo in fondo. Perché da solo ci sto bene e non c’è nessuno fuori da me che capisca davvero chi sono io. E non pretendo poi che qualcuno lo faccia, manco lo chiedo. Che cazzo ci posso fare. Ci ho provato delle volte a dirlo a qualcuno che c’avevo ste paturnie, ci ho provato ma nessuno lo capisce davvero se non sa di che parli. E nessuno sa di che parli. Nemmeno la persona più vicina, più intima che più ti vuole bene può capire quello che hai dentro. Pure se è un amico vero. Si sforza, magari ti sta vicino, ti porta la birra, fuma con te una sigaretta. Ti guarda, ti parla, prova a spiegarti, prova a darti soluzioni, a fare paragoni. Ma mai nessuno potrà capirti. Mai nessuno. Prima mi ci accanivo di più, prima ci provavo. Ma quando poi ho capito sul serio, ho smesso e mò manco mi pesa più. Inutile vomitare quello che sei alla gente. Non potrà mai realmente sapere. Nemmeno la ragazza. Quella magari ti accarezza, ti dà due bacetti poi ti abbraccia ma non capisce una cippa lippa.
E allora ho imparato ad accettare i miei mostri e a conviverci. Io, in prima persona.
E loro ogni tanto stanno lì e manco mi danno più fastidio. Che quando ci stanno tanto io me ne vado, mi chiudo la porta alle spalle e non entra più nessuno. E chiudo gli occhi, verso il muro e faccio finta di dormire. In realtà non dormo. Perché chiudo gli occhi e mi chiudo con me o con quel che ne resta. E mi sembra di stare nel deserto. Io solo.
Senza orientamento, senza cartelli, senza indicazioni, direzioni o segnali deittici di alcunché.
Sono là, nel vuoto e senza meta, senza un’anima, senza un amore, senza una cazzo di bussola.
E manco la voglio più una bussola.


LA LACRIMOSA DI MOZART


Era una mattinata d’estate. Era una calda mattinata d’estate: afosa, torrida, inconsueta. In genere l’umidità la fa da sovrana nel mio paese ma quel pomeriggio il sole cadeva a picco e non veniva filtrato da neppure una gocciolina d’acqua. Io avevo appena fatto gli esami di maturità. Mi ero diplomato al classico con sessanta sessantesimi. Il massimo. La lode non la davano. A scuola non si dà in genere. Ma io ero bravo, non secchione, ma bravo. Di quelli che apprendono con poco. Sono sempre stato così. Sarei stato così pure all’università. Forse pure sul lavoro. Anzi, leva il forse. Sarei stato così sempre. Sul lavoro sono schivo, me ne sto per i cazzi miei, socializzo poco. Team working: -1. Anche se poi sono quello che ha la battuta sarcastica per la quale la gente ride. Sì, insomma. Ma io non prendo nessuno sul serio. La mia “soglia” è insuperabile e quello che gli altri vedono non è quello che è; questo vale per il 99% della gente che incrocio.
E poi comunque non sono il pagliaccio, no, quando mai. Sono quello che quando vuole c’è e quando vuole no.
Comunque in estate mi piace fare vacanze da solo. Ma questo già l’ho detto. L’estate è per me fatale. Perché papà se n’è andato d’estate, dopo la mia maturità. E sono stato io a trovarlo. L’ho trovato io appeso alla corda che penzolava nel bagno. Oltre a quell’immagine che poi credo di aver rimosso, la cosa che più mi stupì fu lo stop che aveva attaccato sul soffitto per mettere la corda.
Era avvezzo di lavori a casa, martelli, chiodi, pinze, cacciaviti. Ma per quanto fosse avvezzo, mettere uno stop su un soffitto non era proprio una cosa da niente (soprattutto quando la casa è antica ed il soffitto supera o sfiora i 3 metri). Aveva preso la scala, l’aveva sistemata bene bene, aveva poi preso la corda (comprata al ferramenta vicino casa, scoprimmo poi), l’aveva attaccata lì, fissa sul soffitto. Aveva fatto il cappio. Aveva verificato che tirasse bene, che la distanza da terra fosse idonea. Che non si sarebbe trovato appeso come un salame solo col collo rotto a morire col tempo e con l’afa. Voleva che fosse tutto rapido, veloce, voleva morire. Voleva proprio morire papà. Manco Dio lo sa quanto. Voleva farlo a tutti i costi e non voleva sbagliare nemmeno un dettaglio. Fece tutto perfettamente anche perché, ripeto, lui i lavori di casa, quelli da uomo, da maschio, li aveva sempre fatti senza problemi. Perché un tempo, forse fino alla generazione precedente alla mia, queste cose si tramandavano di padre in figlio. A piantare un chiodo al muro lo aveva insegnato il mio bisnonno a mio nonno, poi mio nonno a mio padre e infine mio padre a me e a Freddy ma Freddy era un filosofo nell’animo ed io un cazzone.
Conclusione: né io né lui, ad oggi, attacchiamo chiodi (io ci provo ma rischio la perdita del mignolo e dell’indice in contemporanea quindi delego).
Lui invece i chiodi li attaccava bene e gli stop pure. Lo stucco su cui si è impiccato lo aveva fatto lui stesso e pure la tinta gialla del bagno l’aveva data lui (mamma l’aveva voluta pure sul soffitto). Mamma è una di quelle che vuole la casa perfetta, un po’ barocca pure. Sì, insomma, aveva voluto sto bagno giallo che entravi e c’avevi l’impressione di stare dentro ad una sauna di una qualche estetista becero. Un gran cagata per me che amavo il bianco ma a mamma piaceva.
E poi era ed è mamma quella che decide su ste cose. Anzi, forse sono sempre le mamme che decidono su ste cose. Comunque il giallo era allegro e a me non me ne fregava un granché e poi se a lei piaceva a me piaceva. Solo che poi, dopo che papà ci si era impiccato, aveva fatto levare tutto il colore e aveva rimesso il bianco. Aveva richiuso quel bagno e non lo usava quasi mai (ne avevamo altri due a casa). Avrebbe voluto vendere la casa ma la casa era pure per metà di zio e quindi la libertà di farlo non l’aveva avuta. Quindi non le era restato che chiudere quella porta, togliere il colore e cercare di proseguire con la vita.
Ma il colore non c’era bisogno di toglierlo perché se n’era andato con papà. Papà era il colore di casa nostra. E se n’era voluto andare. Se n’era andato così da un momento all’altro. Quella mattina, la mattina dei quadri, mi aveva salutato come se nulla fosse ed era andato in ufficio (in realtà uscendo di casa aveva chiamato in ufficio per dire che era malato). Aveva fatto finta. Mamma a scuola (insegnante d’inglese alle prese con gli scrutini), Freddy in colonia. Lui, vestito normalmente, era uscito di casa, aveva parcheggiato nella via parallela alla nostra, si era appostato. Aveva aspettato che mamma uscisse. Poi era tornato, aveva rimesso la macchina al box, tirato il freno a mano, chiuso i finestrini. Era salito su, aveva preso l’ascensore, aveva salutato la nostra vicina rompi coglioni che aveva incontrato sul pianerottolo e che probabilmente gli aveva raccontato della riunione di condominio e del fatto ch il Sig. Bonelli era veramente un ladro oltre che uno schifoso (Bonelli coi soldi del condominio - che non aveva mai pagato - ci andava a mignotte e quando scopava sembrava di stare nel set di un film porno).
Aveva cortesemente salutato la signora Bonelli, sicuramente con quel sorrisino di circostanza che amava fare quando faceva finta di aver ascoltato la gente (era una cosa che in vita aveva sempre fatto, figuriamoci quasi in morte!).
E poi era entrato in casa, aveva acceso lo stereo e aveva messo la lacrimosa di Mozart a ripetizione. Il bagno era in fondo al corridoio. Era tutto pulito, il marmo per terra era lucido e limpido anche se sulla sedia, di lato, c’erano i panni raccolti dallo stendino che la signora Mariana avrebbe dovuto stirare poco dopo. Nella borsa dell’ufficio aveva la corda, la scala era nell’armadio in balcone, gli stop nella sua valigetta degli attrezzi. La camicia gli si era appiccicata addosso ma non per la paura, solo per il caldo che faceva fuori e che lui aveva preso in macchina nell’attesa che mamma uscisse. La giacca infatti gli si era tutta stropicciata sulla schiena. Se l’era tolta, riponendola nel porta giacca che da sempre aveva avuto in casa (quello che sembrava un omino e con cui io e Freddy avevamo giocato fino a qualche tempo prima).
Aveva rimesso apposto il vestito da ufficio e si era messo una tuta di quelle da casa.
Aveva fatto quello che doveva fare calcolando tutto tranne un imprevisto e cioè che io sarei rientrato prima. Questo non lo poteva sapere.
Mariana sarebbe dovuta arrivare alle 10,30 e avrebbe dovuto essere lei a ritrovare il suo corpo; tutto calcolato: meglio lei che la sua famiglia. Ma io tornai prima quella mattina perché mi era arrivato un messaggio da Katia per andare a casa sua perché me l’avrebbe data.
Katia aveva un anno più di me e ci uscivo da qualche settimana, se l’era tirata un po’ ma quella mattina aveva casa libera e aveva deciso che dovevo andare da lei. “Porta pure i cosi”, aveva detto. Non avevo voluto dare nell’occhio (per evitare le solite domande di mamma) e quindi avevo fatto finta di andare a scuola. A casa ero risalito solo per prendere i preservativi perché volevo farlo lontano da occhi indiscreti. Ero entrato e avevo smadonnato a bassa voce perché avevo capito che c’era ancora qualcuno. Lo stereo andava con Mozart e temevo che fosse mamma che faceva le faccende con la musica dal basso. Il mio piano pareva essere andato a puttane, insomma. Effettivamente il mio piano andò a puttane ma in un modo che non avrei mai immaginato.
Lungo il corridoio notai i panni da stirare ancora intonsi, i piatti erano ancora in cucina da lavare e non si sentiva nessun rumore se non la musica di sottofondo. La casa mi pareva vuota e per un nano secondo pensai che potevano essere i ladri e che magari avevano acceso la musica per depistare i vicini. Fu questione di un nano secondo davvero perché proprio mentre facevo questo pensiero diedi una piccola spinta alla porta del bagno che notai socchiusa e mi trovai di fronte allo spettacolo più terrificante di tutti. Tanto terrificante che oggi ancora ho difficoltà a ricordare con esattezza cosa vidi. Ricostruii parzialmente solo dopo parecchio: lo stop, la scala, la corda e le gambe di papà che penzolavano nel vuoto. Un attimo, un frangente, non so quanto è durato. Mi ritrovò Mariana sul corridoio, vicino ai panni da stirare piegato in posizione fetale e faccia al muro. Non una lacrima, non un lamento. Solo gli occhi chiusi e la fronte sudata. Inizialmente mi scosse preoccupata poi di istinto entrò nel bagno, come se avesse percepito la stranezza che emanava quella stanza in quel momento, quasi avesse presagito che quella mia reazione non poteva che sottendere qualcosa di grave. Quasi se ne fosse accorta. Entrò al bagno e gridò a lungo. Poi venne da me che stavo ancora lì, su un lato del corridoio. Parlò trafelata, mi abbracciò, poi corse verso il telefono, doveva chiamare qualcuno, non so se chiamò mamma o l’ambulanza o la polizia.
Non lo so chi si chiama in questi casi. Ci fu un mucchio di gente poco dopo in casa nostra. E mamma quando era arrivata già le avevano detto. Entrò in bagno nonostante avessero provato a fermarla. Entrò perché non ci credeva e voleva guardare con i suoi occhi, i suoi.
Non ci credeva a quelli degli altri, non era possibile, no. Suo marito non poteva, non poteva aver fatto una cosa così. Aveva urlato mamma e poi era ricaduta sulle sue stesse ginocchia. A piangere e a strapparsi i capelli e a dire che non era vero, non era vero. Non era possibile che si era ammazzato, non era vero. Ma i piedi di papà penzolavano ancora dal soffitto giallo. E la tuta che aveva addosso ondeggiava con il movimento dell’aria, così come pure i lacci delle scarpe che aveva tenuto. Perché anche se si era ammazzato, le leggi fisiche ancora avevano potere sul suo corpo e su quello che lo rivestiva.
Per la fisica ancora esisteva ma per me di quel che lui era non ne rimaneva più traccia. In bagno appeso non c’era mio padre ma il suo corpo.
La sua anima, il suo cervello, il suo pensare, o non so come chiamarlo, erano andati via in quella mattinata di luglio. Non avrei mai più sentito la sua risata o le sue storie, né parlato di niente. Non c’era più niente.
Io rimasi lì, per un po’ ancora faccia al muro. Mamma entrando non mi aveva notato anche perché Mariana, nel panico del momento, non glielo aveva detto che io c’ero. E quando mi vide si buttò a terra vicino a me. Mi strinse e pianse a lungo sulla mia schiena. Io continuavo a starmene lì: immobile e con gli occhi chiusi. D’un tratto mi allontanai da tutto quanto era accaduto, “devo muovermi”, mi dissi ed in pochi istanti tutto effettivamente scomparve.
Me ne andai per la prima volta. Me ne andai dalla paura e mi sentii meglio perché io non ero più lì e quella situazione non mi riguardava quasi più, non c’ero, non sentivo nulla, né le voci della gente né il medico legale per gli accertamenti, né niente di niente. A parte la Lacrimosa di Mozart che era l’unica cosa rimasta. L’unica cosa che papà ci aveva lasciato.
E forse anche quella faceva parte del suo piano, mi dissi poi.



VIAGGIO A PIU’ NON POSSO



Devo muovermi. Devo cambiare lavoro, devo cambiare paese, me ne devo andare. Ma non lo so, non lo so se ci riesco. Resto qui. Ma qui dove? Non c’è niente qui, è tutto nero, buio, bianco o non lo so, non lo vedo, non lo sento. Mi fa male il petto. Mi fa male. Ho il morso delle cose allo stomaco, ho il morso allo stomaco, sudo. Mi sta stretta, l’aria mi sta stretta, vorrei piangere ma non ci riesco, non ho più pianto dopo la cosa di papà; ho provato angoscia, ansia ma non ho mai pianto. Non ci riesco a piangere. Non so come si fa, non capisco come ti viene, come escono le lacrime. Non lo so fare, no l’avevo mai fatto. Adesso scrivo a lei, la chiamo. No, le scrivo che a chiamarla non ci riesco. Le scrivo che mi sento così, senza meta. Ma non capirà, forse non capirà. Ma forse ci riesce, ci prova. Magari ci riesce. Oppure non chiamo nessuno e sto qui o me ne vado. Esco. Devo muovermi. Devo andarmene, devo farmi almeno una birra. Devo stare nel caos della gente, al centro della folla. Nel caos almeno mi dimentico dei morsi. Ci provo. Nella folla della gente, nelle donne che vedo senza nitidezza. Non potrò mai averne nessuna veramente quindi tanto vale averle tutte. Mi sembra di stare solo pure se sono nel casino. C’è casino e io vedo tutto riflesso come da un lampione. O forse è solo un lampione. Il lampione del bar di Ben. O forse è solo Ben. Si, è lui. Mi saluta, sorrido; difficilmente sorrido di circostanza ma a Ben difficilmente non sorrido. Ben è un mio amico, anzi Ben è un fratello. Ci sta sempre. Sa tutto di me. Soprattutto quando sto male, soprattutto se mi sento perso. Mando un sms alla fine, le scrivo. Lancio il sasso magari lo coglierà. Non so se capisce ma forse lo fa e ho bisogno di aiuto. Le scrivo senza chiederle aiuto, le scrivo e basta. Messaggio inviato. Bip. Risponde. Mi dice che vorrebbe stringermi. Non servirebbe a un cazzo stringermi ma non posso dirglielo.
La tengo lì, la chiamo poi, ci potrei fare l’amore o scopare magari ma non lo so. Non lo so se ci riesco. Ora non c’è, non c’è nemmeno il mio cazzo anche perché nemmeno io ci sono. No, ora non ci sono.
Però c’è Ben. “sempre co sto cellulare, ma lavori pure di notte?”.
Nemmeno lo sfiora il pensiero che è a Marica che ho scritto. Mi viene il dubbio di non avergliene mai parlato. Forse infatti non l’ho fatto. Forse non gli ho nemmeno detto come si chiama. Forse gli avevo solo detto che mi scopavo una ma me ne scopo tante quindi si sarà dimenticato, povero Ben. Ben il ciccione. Così lo chiamavo, che stronzo. Ha un po’ di pancia Ben però è un bel ragazzetto e poi è mio fratello. Non sono oggettivo, lo guardo con occhi diversi.
Si è sposato due mesi fa. Tutti si sposano ormai alla mia età. Cazzi loro, io devo muovermi, assolutamente muovermi; cambio bar. Incontro un brasiliano, è la mia via d’uscita. Gli chiedo come va il lavoro lì. Gli chiedo se è vero che il mercato lì in Brasile si sta muovendo, E dove poi? Rio? Brasilia? Voglio andarci. Se non ci vado muoio. C’ho la frenesia. Non riesco più a star fermo. Parlo anche con un indiano, biascico in inglese. Stranamente parlo fluido, forse perché continuo a bere. Mi sento geniale stasera. Mi sento così oh, sarò presuntuoso. Mi sembra di non poter sbagliare. Parlo con l’indiano, lo guardo ma non lo vedo perché sono fuori ora, tra l’altro mi sono fatto pure un cannone d’erba. Sono completamene fuori dal mondo e oltretutto sono pure ubriaco. Bip. Forse è un altro messaggio, lei mi chiede come sto. Non sto. Non essendoci non ci sono, non posso esserci, non posso risponderti. Lo farò un giorno magari, anzi, sicuramente ma ora non ci sono per nessuno. Da dirle per ora non ho altro. Voglio parlare con l’indiano, voglio chiedergli di come va il mercato lì. L’indiano pure lavora in Brasile. Voglio andarci anche io. Di corsa, devo e voglio muovermi assolutamente. Non posso stare qua, non posso stare fermo. Arriva Ben. Rido, sono contento di vederlo. Fumiamo una sigaretta, un’altra sigaretta ancora. Una, due, tre, quattro, tante. Ne ho fumate già un pacchetto e sono solo due ore che sono in giro.
Mi sento il tabacco in bocca e mi pizzica la gola ma mi sento nervoso e non posso non fumare. Non posso, non ci riesco proprio.
L’indiano mi lascia il biglietto.
Ben mi dice “chi cazz’è questo”.
“Send me an email, please”.
“Of course”, gli rispondo.
I Wanna move. Muovermi, muovermi. Voglio muovermi.
Mò parto. Se mi riesce parto, me ne vado via da qua, dal lavoro che faccio, da sta gente che vedo tutti i giorni. Me ne vado, sì me ne vado via.
“Ben, me ne voglio andare da sto paese di merda”.
“E’ una vita che te ne vuoi andare, ciccio, vedi di andartene a fanculo intanto!”.
Ridiamo insieme. Con Ben mi sento più tranquillo.
“C’è una” gli dico.
“Poveraccia”, mi risponde lui e andiamo a Campo dè Fiori per uno shottino. Rum e Pera. Rum e Pera. Non sembriamo aver bisogno d’altro.
Con Ben ci siamo alcolizzati un sacco di volte, stasera lui è tranquillo perché Ester, la moglie, se ne sta al mare da sua madre. Siamo tornati due adolescenti, mi piace quando è rilassato Ben. Con Ester sembra gli abbiamo ficcato un palo nel culo, è tutto impettito.
Un giorno mi telefona e fa: “Lorenzo, con Ester pensavamo di cenare a quel ristorante, è indiano. Ce lo ha consigliato suo padre e devo dirti mi piacerebbe che tu venissi”.
E io dall’altra parte della cornetta che gli dico: “come cazzo parli coglione, quante te ne sei scopate ieri?”.
Lo prendo per il culo e lui non può rispondermi perché è davanti ad Ester.
“Ma glielo hai detto ad Ester che sei un po’ frocio?”, rido ma lui rimane imperterrito.
A quest’ultima battuta lui non fa che rispondermi “Ok, sei dei nostri, sì glielo dico ad Ester”.
Le dirà che è un po’ frocio o che io vengo al ristornate indiano?
Bello Ben. L’amico perfetto. Come lui non c’è nessuno. Sono uno stronzo ma anche io a mio modo provo sentimenti. Solo che li dimostro solo così, che ci devo fare. Vallo a spiegare alle donne, vallo a spiegare a Marica che a questo punto della serata sarà pure incazzata come un’aquila reale. Quanto mi piace quando s’incazza però. Ci mette la stessa foga di quando scopiamo. Insomma quando sbraita penso che quella è esattamente la stessa energia che avrebbe usato per una scopata (che io ho incurantemente sprecato in un certo senso). Mi piace anche vederla sbraitare. Marica mi piace alla fine, solo che non mi può stare addosso manco lei. Stasera io non ci sono per nessuno, nemmeno per me stesso. Lorenzo stasera non c’è per nessuno, è chiuso per le sue solite ferie. Chiuso.


MARICA 1


L’avevo vista camminare lungo la stazione. Prendevamo spesso il treno insieme. Spesso forse è troppo. Prendevamo il treno insieme qualche volta. Nella maggior parte dei casi io ero in trasferta e allora mi muovevo con la macchina. Ma quando prendevo il treno la incontravo. L’avevo notata in mezzo alla gente. Avevo notato il suo culo, per la precisione. Vestita tutta in tiro, con un taller nero gessato e sto culo che spiccava. Io di solito me ne sto sulle mie in treno o in stazione. Lì in disparte, guardo la gente, mi ascolto la musica. Voglio essere un osservatore esterno, ecco (come sempre insomma). Non voglio che qualcuno mi saluti o magari mi sorrida. Vorrei guardare ma non essere guardato. Comunque vabbè.
A lei l’avevo notata in mezzo a tutta sta gente. Il suo bel sedere anzi. Poi è accaduto quello che accade sempre: dal sedere sono salito al viso. E ho trovato un bel viso vispo, occhi svegli. Era la classica figa, anzi diciamo pure la classica bella ragazza. Quella che tutti si girano a guardarla per strada.
Alla stazione se ne stava sulle sue. Se la tirava un po’, ora che ci penso. Ma alla fine questa cosa mi aveva fatto simpatia. Sì, perché mi piaceva questo suo modo di estraniarsi dal mondo. Si ascoltava la musica dalle cuffiette, si guardava intorno, osservava la gente. Insomma nulla di diverso da me se ci penso. Anzi, nulla di più simile. Io alla stazione non mi cagavo nemmeno il controllore. Guardavo solo la gente e lei idem. Soltanto che lei era più accorta ed effettivamente ebbi inizialmente l’impressione che non mi avesse notato. Non che io sia sto figaccione da notare però ho il mio perché. Sarà che ho il fascino del tenebroso che piace alle donne (che comunque sono tutte masochiste e si appassionano dei casi difficili come me. Valle a capire.).
Venni a sapere poi che lei mi aveva notato eccome, forse anche prima di me. Lei dice così, anzi diceva. E io ci avevo creduto ma è vero pure che secondo me ero stato prima io a notarla. Perché prima che in stazione, qualche volta, mi era capitato di vederla in giro qua e là e mi aveva colpito quasi subito. Poi quando me la sono trovata alla stazione ho detto “è fatta!”. Cioè fatta nel senso che almeno potevo provare a parlarci. Del resto lei non aveva fatto granché per farmi capire. La stronza. Mi aveva detto poi:
“lo sentivo di piacerti, sapevo che mi guardavi e ti lasciavo fare. Prima o poi ti saresti fatto avanti”. E aveva ragione alla fine. Aveva ragione perché un giorno l’avevo fermata per una cazzata.
“E’ in ritardo il treno?”.
“Sì, di 30 minuti”.
“Non hai problemi a tardare a lavoro? Che fai?” e da lì giù a parlare.
E avevo capito che anche lei aveva voglia di parlarmi. L’avevo invitata a cena fuori, subito praticamente. Siamo usciti e io ero parecchio tranquillo e poiché non mi capita spesso, mi sono rilassato. A parlarle di viaggi, lavoro, della mia storia con Lorena, finita oramai anni prima. Mi piaceva come si imbarazzava, aveva la tendenza a curvare il collo a sinistra e ad accennare un sorriso storcendo la bocca in questi casi. La osservavo parecchio. Già mi capita di guardare le persone in generale, figuriamoci lei. Inutile dire che me la sarei fatta in istantanea. Subito proprio. Aveva sta pelle liscia e poi, aveva un seno che mi chiamava dalla scollatura (la terza cosa che guardo dopo culo e viso). Che poi non era eccessiva. Non era il tipo che ti rimorchiava così, però le tette ce le aveva e gliele notavi, che lei volesse o meno. Che poi non è vero che non voleva. Diciamo che voleva fare la sobria. Paracula. Sì, mi piaceva proprio per questo alla fine. Sono stato normale con lei per lo meno un paio di mesi. Sono stato rilassato, non c’avevo le paturnie, non mi sono mai chiuso. E il casino è che lei non ha conosciuto la parte prevalente di me ma un’altra. E alla fine a quella “vera” (o diciamo pure, “più vera”) non c’era voluta stare proprio e aveva fatto di tutto per farmi tornare nel me che tanto gli era piaciuto e di cui forse si era innamorata. Anche perché era una mezza pazza pure lei.
Lavorava dentro una segreteria di un commercialista. Turni massacranti ma di quel lavoro non gliene fregava un cazzo. Aspirava a scrivere. Scriveva parecchio. Mi aveva fatto leggere delle cose e non mi pareva male. Uno scrittore non è mai tranquillo e infatti lei non era per niente tranquilla. Aveva voglia di dire qualcosa di suo, di esprimersi. Lo faceva pure con me. Viscerale, focosa. Non so come dirlo. Forse per questo mi era piaciuta, perché io non sarei mai stato come lei e alla fine nemmeno aspiravo ad esserci. Però non posso dire che questa sua parte non mi affascinasse, anzi, lo faceva eccome. Lei sì, secondo me alla fine era più una scrittrice che una segretaria. Se ne stava lì a guardare la gente, a scrutarla, a creare personaggi nella sua testa, a scrivere cose anche sugli scontrini del supermercato. Non era mediocre, certo non era Proust. E a me piaceva quel suo modo di esprimersi. Semplice, lineare, diretto. Proprio come non era nella realtà. Nella realtà lei era molto più confusionaria ed ingarbugliata, ben lontana da quel taller con cui spesso l’avevo vista.
Era un bel casino anche lei, fantasiosa.
Non poteva che avermi attratto quel suo modo confuso di esistere.
Mi pareva diversa in fondo, mi pareva diversa dalle altre. Era di quelle che la partita se la giocano da sole e tutta a modo loro, in maniera ostinata e contro tutto e tutti, se necessario. Un po’ tipo mamma che dopo che papà se n’era andato aveva ripristinato la normalità in casa e se la gente le chiedeva di papà e diceva quelle frasi di circostanza, lei alzava la voce dicendo che non dovevano rompere i coglioni con quelle facce. Una maschera di forza pure la sua. Una maschera di coraggio. Una capocciona pure lei. Aveva solo voluto ridipingere il bagno e renderlo inutilizzabile. Non voleva più vedere come entrassero i raggi del sole dalla finestra esposta a sud-est, non voleva ricordare come il sole aveva illuminato il corpo di papà in maniera così nitida e chiara quella mattina e come i suoi raggi sembravano essere diventati un tutt’uno con quel giallo. Il sole ci aveva aiutato a vedere bene, a tutti. Sembrava un riflettore sul corpo inerme di papà. Per questo odio l’estate. Ma forse la odiavo anche prima o forse no. Effettivamente in Sardegna non mi era mai capitato di odiarla, anzi. Mi facevo certi bagni. Era impossibile tirarmi fuori dall’acqua. E papà rideva, rideva, non faceva che ridere. E io alla fine non riesco a ricordare quando avesse smesso di farlo; di ridere intendo. Forse mai o forse lo aveva fatto e io non me ne ero mai accorto, perché lui era un ottimo attore.
Comunque vabbè, in buona sostanza, la sfacciataggine di Marica mi ricordava un po’ mamma.
Ma mamma da vedova, non mamma quando stava con papà che se ne era stata sempre lì in disparte. Mamma con papà non era mai la protagonista. Poi erano sposati da una vita e fidanzati da prima di subito. Quindi era stato impossibile creare uno spazio proprio per entrambi. Diciamo che mamma lo fece dopo e forse (chissà) pure controvoglia. Che essere cullata per sempre dal marito le sarebbe piaciuto sul serio.
E anche Marica, forse, avrebbe arginato quella sua parte esuberante se mai qualcuno avesse saputo catturarla. E lei mi aveva scelto come quel qualcuno. Lei voleva stare con me, scoprendosi, alla fine, poco diversa dalle altre. Voleva lo stesso che vogliono tutte le donne. Dava amore e lo pretendeva in cambio. Non scopava tanto per. Mi si muoveva sopra sinuosa perché mi voleva più di ogni altro al mondo. Pure se ero io. E, ripeto, non che io sia proprio un granché. Voleva quindi quello che volevan tutte, anche se all’apparenza pareva indipendente e mezza matta. Voleva anche lei un amore, una relazione ed io non potevo offrirle una sistemazione. Non ero in grado di dare una sistemazione a me stesso, figuriamoci a qualcun’altro. Figuariamoci a qualcun’altro così impegnativo. E stringendomi stretto quando facevamo l’amore lo diceva forse.
Avevo fatto finta poi di non capire, sì insomma, dopo quei due mesi di normalità che le avevo dato, ma lo avevo capito da principio. Lo sapevo ma non potevo farle capire che lo sapevo altrimenti avrei dovuto anche spiegarle perché non facevo niente e forse non ce l’avrei mai fatta. Un giorno ci avevo provato, un giorno che non l’avevo chiamata.
“Io non sono come gli altri Marica e non perché sono stronzo ma perché non ci riesco. Stare con me è impossibile. O almeno nel senso normale del termine”.
Lei non si era incazzata quella volta, aveva provato a cercare una soluzione ma non l’aveva trovata. Non gliela avevo fatta trovare. Da un lato non volevo che mi stesse addosso, dall’altro, sì. Quindi avevo cominciato a sparire e a ritornare. Un bello stronzo visto da fuori. Il classico stronzo. Qualcuno dei suoi molti amici doveva certamente averglielo detto. Ma continuava ad insistere con la sua caparbia. Cocciuta anche lei, cocciuta a voler stare proprio con me tra tutti quelli che poteva avere a costi zero. Forse anche lei era un po’ strana alla fine. Più strana di me. Ma chissene frega perché alla fine ce l’ha fatta ad andarsene. Mi è dispiaciuto. Non che abbia pianto o riso o parlato con qualcuno. No. Nessuno dei miei l’aveva mai vista se non sentita nominare. E neanche io l’avevo più sentita. Era sparita. Aveva fatto di tutto per non avermi più sotto il naso. E io figuriamoci, io non avevo più fatto nulla. Mi ero accovacciato (questa volta metaforicamente) come al mio solito di lato, posizione fetale, occhi chiusi al muro. Mi ero staccato di nuovo dal mondo. Ero andato via da tutti, cellulari spenti e silenzio. Solo con me stesso. L’unico con cui potevo stare, l’unico che non mi avrebbe mai intaccato, l’unico che, se anche se ne fosse andato via, sarebbe poi ritornato. Io solo, solo io e basta.


MARICA 2


“Me ne vado Lorè. Me ne vado e questa è l’ultima volta che te lo dico”.
“Per una volta vieni a trattenermi se vuoi che non lo faccia, per una volta fammi veder che ci riesci.”
Non feci niente ovviamente e lei se ne andò a Londra, trasferimento definitivo.
Non rimase che quella strisciata di smalto e una mezza foto che ci eravamo fatti una sera (su sua spinta ovviamente).
Non potevo trattenerla, pur avendolo in parte voluto. Qualcosa in me era inceppato, qualcosa mi bloccava. Mi sentivo come quei personaggi di Dubliners di Joyce. Mi sentivo inerme e non riuscivo neppure a provare nulla.
Fu la volta che ripresi quel fogliettino che lei mi aveva lasciato e decisi di valutare seriamente la cosa. Andare a parlarne con qualcuno. L’idea era comunque emersa in me in maniera forzata, perché sebbene mi andasse di sentirla (se non altro per capire come cazzo le andassero le cose lì), non sentivo dentro un dolore forte, né uscirono da me quelle famose lacrime già nominate in precedenza.
Chiamai comunque; “per sentire”, mi dissi.
E fu così che incontrai il tipo, il Dottore, strizzacervelli di professione, poi soprannominato Strizza (palle oltre che cervelli). Sì, quello che di professione analizza le seghe mentali degli altri. Peccato che io non ne avevo di seghe mentali da farmi analizzare perché non me le facevo. In me era tutto piuttosto chiaro. So cosa avevo e so come ero. Non avevo chiesto una soluzione a nessuno.
Tant’è che pure Strizza alla fine mi disse la stessa cosa.
“Lei sa di avere un problema ma non ha maturato il sincero desiderio di risolverlo”.
“Sì non me ne frega una minchia di risolverlo”
“Questo non lo credo perché è qui oggi. Qualcosa deve averla mossa”
“Mi ha dato il suo numero un’amica”
“Bene, vuole allora raccontarmi di lei?”
Il paraculo aveva chiaro che un po’ c’entrava lei; se non altro che da lei partiva. In fondo era l’unica cosa che mi avesse spinto ad andare da lui, non ce n’erano altre. Era furbo l’amico. Poi con quel suo modo di parlare, con le mani a preghiera davanti la bocca. Si metteva lì e ascoltava stringendo gli occhi come a voler focalizzare quello che gli dicevo. Alla fine avevo parlato un po’ e poi non so come si saltò a parlare di papà. E lì tutto fu chiaro anche a lui (anche se secondo me quello aveva chiaro tutto dall’inizio, razza di veggente di sta minchia!).
“Lei è a rischio o forse già ha disturbi psichici che possiamo analizzare con colloqui, colloqui e colloqui… Sviscerando il suo dolore”.
E questa la frase che mi ha fatto rosicare più di tutti. Anzi la parola: sviscerare. Le budella di un pesce. Mi sono sentito uno scorfano che deve essere sviscerato a causa della sua spina velenosa. La mia spina velenosa invece era sempre stata lì, perché la dovevo togliere sviscerandola, magari tagliandola, perché?
Non mi andava. In fondo anche quella spina rossastra era parte di come ero io.
Polemiche a parte, ci sono tornato. Strizza non era poi così male. Abbiamo parlato di tante cose alla fine. Di papà, di mamma, dei miei rapporti instabili con le poche donne avute. Ci siamo fatti anche qualche risata, anzi io mi sono fatto qualche risata a raccontargli di Ben e di Freddy che filosofeggiava dalla mattina alla sera.
Ci andai tre volte in tutto, alla quarta gli diedi buca. Mi sembrava che la nostra “relazione” (chiamiamola così ma mi sa un po’ di froci) fosse troppo stretta. Insomma, cominciavo a sentirmi vincolato.
E subito dopo tutto cominciò a strami più stretto ed il mio desiderio consueto di muovermi diventò, tutto ad un tratto, una cazzo di necessità. Potevo partire anche io. Potevo andare a trovarla magari bussarle alla porta o farle un’improvvisata. Un’improvvisata no che vedermela a cavalcioni su un altro tipo (magari un inglese sbiadito) mi avrebbe fatto un po’ senso. Non nel senso di gelosia ma proprio di senso. E poi che le avrei detto quando mi avrebbe chiesto perché ero lì?
Già non mi sentivo più in me visto i ragionamenti che stavo facendo. Non era da me tentennare tanto. Sempre così netto, definito; definitivo. E invece cazzo stavo pensando ad un viaggio a Londra. Dopo due mesi che non la vedevo e non la sentivo. Sì, ci stavo pensando.
Ma cosa le avrei detto però? Quella avrebbe voluto una spiegazione della mia presenza. E io non sono un tipo da rose. Da rose e fiori in generale. Con me non son mai state rose e fiori. Non penso esista una donna che da me abbia avuto serenità.
Però volevo muovermi, ne sentivo oramai l’esigenza. Potevo andare a trovarla e sarebbe andata come sarebbe andata. Sarebbe andata bene, sarebbe stato bello vederla ridere, guardarle dentro la scollatura ed infilarci dentro una mano. Bello pure abbracciarla e rotolarci su un divano londinese dalla fantasia improbabile. Magari mi avrebbe detto “Ti amo”. Magari avrebbe voluto da me dei bambini. Sì, magari avrebbe immaginato per noi una cosa così. Io, lei, lei, io. Pesce Rosa, Pesce Toneietto. E pescetti Toniettino e Toniettissimo.
Magari. Ma mentre pensavo notai il muro che era bianco. Lo fissai un po’ e sentii una morsa forte allo stomaco. Lancinante morsa, di nuovo. Mi accovacciai di lato sul divano. Fissavo il muro di fronte bianco. Sfumò l’immagine di lei che rideva e di noi che facevamo maialate, di noi insieme. Se ne andò, non seppi trattenerla. Se ne andò e via. Non so come. D’un tratto mi parse lontano quello che avevo pensato. Come se non lo avessi pensato io. Come se lo avessi sognato con la testa di uno che era diversa dalla mia. Chiamai Ben.
“Arrivo al bar tra un quarto d’ora”
“Sì Ciccio, ti aspetto”.
Di nuovo catapultato nel caos di Roma. Di nuovo i sanpietrini che vedevo dall’alto. I viottoli, le macchine, i fari di un taxi che aveva sfrecciato per non perdere il cliente. La folla di turisti che animavano colorati la città. Nella notte le luci mi parevano accecanti. Ma mi muovevo di qua e di là. Prima di arrivare da Ben avevo risposto ad un indicazione stradale in inglese.
“Yes go straight and ask for Altare della Patria”
Da Ben l’indiano.
Di nuovo, quello del Brasile.
“Hi Mr X, your cv is interesting.
I would like to meet you for an interview”
“Of course”, risposi disinvolto.
Un colloquio non si nega a nessuno.
“E dove?”
“In Rio De Janeiro”


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Caro Dottore, le scrivo che sono già in aeroporto in attesa dell’aereo che mi porterà in Brasile. Alla fine ho chiamato l’indiano di cui le avevo accennato, quello che mi aveva dato l’aggancio per continuare lì il mio lavoro. A prescindere da quel che sarà il mio lavoro, è proprio lì che voglio andare ora. Voglio muovermi in quella direzione. Domani non mi presenterò a colloquio con Lei e all’ora del nostro appuntamento, Lei non avrà ancora ricevuto questa mia lettera. Spero non mi inveirà contro in maniera eccessiva (mi sembra difficile crederlo conoscendo la sua amabile calma) perché le sto inviando, insieme alla carta, anche una banconota da 100 euro per pagarle la seduta prenotata.
Non credo che tornerò più a parlare con Lei, né che continueremo con “la cura” e con quanto pattuito con la mia prima visita. Lei dice che il mio dolore è ancora da sviscerare. Avrà certamente i suoi buoni motivi per farlo ma io credo che non voglio più avvalermi di Lei. L’impegno nei suoi confronti mi vincola e, come saprà meglio di me, non riesco a dare continuità e solidità a nessuno quindi neppure a Lei.
Bella la sua idea di farmi suddividere la mia vita e di dare un titolo ad ogni cosa tramite l’associazione di idee, quello credo che continuerò a farlo. Bella idea, l’ho apprezzata molto e credo che in parte abbia dato i suoi risultati.
Lei mi definisce un soggetto a rischio (se non proprio “con”) disturbi psichici dovuti a un forte trauma del passato. Vorrei dar torto alla sua diagnosi ma probabilmente mentirei a me stesso facendolo. Ho sempre saputo quanto amassi mio padre e quanto la sua morte abbia influito ed influenzato la mia vita e mi abbia quindi reso un “handicappato del sentimento”, come lei stesso mi ha simpaticamente appellato.
Nonostante tutto, non vedo in me nulla di sbagliato. Nulla di peggiore o migliore. Nulla di più o meno incoerente. Nulla più o meno rispetto a tanti altri che conosco e che non conosco ma che ho osservato. La mia schietta sincerità mi pare più onesta di tanti altri atteggiamenti che vedo in giro. Quindi, non me ne voglia, ma non desidero più curarmi perché non mi sento meno o più normale di altri.
La saluto con queste poche righe perché il mio aereo sta atterrando. Vedremo come andranno le cose in Brasile. Sicuramente cambierà solo lo scenario mentre le situazioni rimarranno le stesse.
Io da un lato ed il resto del mondo dall’altro.
Concludo ringraziandola di quanto ha fatto per me sino ad oggi. Mesi fa non avrei mai scritto una lettera di commiato a qualcuno. Che fosse una donna o chissà chi altro.
Con Lei ho provato l’impulso di farlo.

Grazie di tutto e buone cose.
Un saluto

Lorenzo

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1 commento:

Luca Amantia ha detto...

non vorrei commentarlo in modo banale, dico solo che mi ha rapito e mi ha fatto viaggiare. mi sembrava di vederli i posti che hai descritto....

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